
Biografie
Queste sono le biografie scrittte dagli alunni della Scuola Secondaria di Primo Grado "Caduti di Piazza Loggia" di Ghedi
Domenico Contratti
Mi chiamo Domenico, sono figlio di Angelo e Caterina, sono nato a Ghedi il 29 Novembre del 1923. Contadino di professione, ma durante la guerra soldato d’artiglieria alpina.
16 maggio del 1943. Il dannato giorno che segnò l’inizio della mia nuova e desolante vita. Il giorno in cui fui chiamato alle armi. Pochi giorni prima era arrivata la cartolina che mi comunicava di presentarmi al secondo reggimento Alpino, gruppo Valcamonica. Attorno a me scorgevo alcuni visi vagamente familiari, lontani dalla nostra terra e dai nostri affetti. La mia famiglia... I miei genitori, Angelo e Caterina, non sono più giovani come una volta... Non verrà fatto loro del male? Inutile pensarci, non posso farci nulla ormai, alla guerra non si comanda a quanto pare.
Uno stridio sordo mi riportò bruscamente al presente. Il treno si era fermato. Il portello del vagone si apre e ci fanno scendere, finalmente riesco a vedere in che razza di luogo ci hanno portati: siamo in montagna, la vegetazione non è rigogliosa come quella a Ghedi in questo stesso periodo. Ovunque mi volti sono circondato solo da boschi e roccia. Vedere questo luogo così diverso da casa mi fa venire ancora più nostalgia della mia amata campagna: i suoi colori e la sua gioia sembrano ancora più vividi nella mia memoria, guardando queste montagne ormai conquistate dalla guerra. Ero un contadino, so di cosa sto parlando: ricordo benissimo i pomeriggi sotto il caldo sole a lavorare con mio padre, dopo la scuola. All’inizio avevo iniziato quel lavoro solo per essere d’aiuto ai miei, ma poi, pian piano, mi sono affezionato a quel mestiere, al lavoro nei campi, ai giorni in mezzo all’erba alta con il frinire delle cicale. Improvvisamente un urlo sovrasta tutte le altre voci: è il comandante, cerca di rimetterci in riga.
8 Settembre 1943. Sono su un camion. Sto andando in caserma, seduto su una panca. I freni stridono, capisco che il camion si sta per fermare. Scendo, mi metto in fila. Un ufficiale si avvicina, si ferma e inizia l’appello. Tutti presenti. È giunta l’ora di raggiungere la mia camerata quando sento una voce provenire dagli altoparlanti: è il generale Badoglio, che annuncia la fine della guerra. Gli amici di ieri, però, sono i nemici di oggi. All’inizio io e gli altri ci guardiamo negli occhi non capendo cosa stia dicendo, ma dopo pochi istanti sento delle grida provenire dal cortile, mi alzo e dalla finestra noto l’arrivo di un carro armato tedesco. “Raus Raus”, dei soldati ci raggiungono e ci ordinano di incamminarci verso il cortile. Ci suddividono in file da tre e, a piedi, raggiungiamo Bolzano. Sono stanco, la camminata è stata lunga, mi fanno male i piedi e dopo aver mangiato il rancio, coricandomi sul letto, mi addormento all’istante. Apro gli occhi, i tedeschi urlano e con molta fatica capisco di dover raggiungere il chiostro. Lì ci radunano. La prossima destinazione è la stazione. Appena arrivato, noto subito i numerosi vagoni dedicati al trasporto merci. Partiamo, non sappiamo con precisione la prossima meta. L’oscurità e le numerose ore passate in treno mi disorientano, infatti io e miei compagni non sappiamo quanto tempo sia passato e se ci sia ancora luce. Proprio nel momento in cui riflettiamo riguardo a questo, il treno si ferma. Sento l’acuto rumore del portellone del vagone. Lo aprono. Scendiamo e ci dirigiamo verso il campo M. Stammlager XI-B; noto che vicino a questo c’è un cartello con scritto Fallingbostel, forse il paese in cui eravamo. Da quel momento in poi sono un internato militare, costretto a lavorare per il Reich senza sostegno e assistenza. Già nell’aria si sente odore di morte e sofferenza. È un vasto campo circondato da filo spinato e da torrette. Ci mettono di fronte ad una terribile scelta: uscire dall’inferno della prigionia e ritornare in Italia, aderendo alla Repubblica di Salò. Amo l’Italia, ma non voglio collaborare con chi la calpesta, rifiuto l’ideologia di chi disprezza l’uomo e agisce con violenza. I tedeschi si accaniscono, con ancora più ferocia contro chi, come me, ha accettato di patire condizioni disumane piuttosto che dire un sì. Signora Germania, tu mi hai messo in prigione e controlli che io non scappi. È inutile, io non esco ma entra chiunque: innanzitutto le mie emozioni, il nostro Dio che ci insegna l’amore vietato dalle vostre regole. Signora Germania: nel mio sacco non troverai oro, ma solo gemme di un passato felice. Il giorno in cui, presa dall’ira, con un’esplosione mi ucciderai, vedrai che da me risorgerà un corpo migliore, che non potrai imprigionare. Tu credi che l’uomo si possa controllare, ed è così, ma all’esterno, perché all’interno una cosa sola lo comanda, la fede in Dio e nient’ altro.
9 Maggio 1944. La mia ora è arrivata, ma nulla mi affligge, so che non posso scampare al mio destino. È notte. Nella baracca entra la morte, è venuta a prendermi. Continuo a gemere. Inizio a mormorare il nome di mia madre e poi... Silenzio, nient’altro.
Martino Pasini
Martino: “I miei genitori, Maria e Francesco, mi chiamarono Martino; nacqui nel 1908, l’otto agosto a Ghedi. Capelli neri come il carbone, colorito olivastro, occhi marroni, troppo alto per l’epoca, fattore che mi portò alla fine. Trascorsi la mia infanzia come un ragazzo qualsiasi. Mi sposai con Paola, nel 1933; avemmo tre figli: Giuseppe, Sergio ed Ennio. Nel giugno del 1940 giunsi al quinto Reggimento Artiglieria Alpina, il diciotto ottobre del 1940 fui mandato in congedo illimitato per la mia età. Ma, tornato a Ghedi, un giorno, fui rastrellato dai tedeschi, portato in Germania e internato”.
Paola: “Mi chiamo Paola, mio marito Martino è in Germania. Noi che siamo rimasti a Ghedi patiamo la fame, non c’è cibo o meglio, c’è, ma è lo stesso, tutti i giorni. Polenta. Tutti i santi giorni, ad ogni pasto. I bambini soffrono, gli anziani patiscono con loro. I bambini passano tutto il giorno al fontanile, sperando in una pesca fortunata. Tornano esausti prima dell’arrivo di Pippo. L’aereo che vola senza meta, basta una luce e sgancia le bombe. La casa ha le finestre nere, noi mamme diciamo ai nostri figli che, dopo che è passato Pippo, possono andare a dormire. Cerchiamo un posto sicuro e spegniamo tutte le candele”.
Stefano e Patrizio: “Era già passato qualche mese dalla sua morte, ma il suo fantasma riempiva ancora le nostre notti. Vedemmo cadere il suo corpo accanto noi. Da quando corse per raggiungerci, a quando quell’esplosione lo colpì poco distante. Noi ci salvammo, la sua statura invece gli fu fatale: non riuscì a trovare riparo. Tornammo a casa. Vedere i nostri cari ci confortò, ma ricordare un amico morire è una ferita che non guarisce mai. Bussammo alla sua porta di casa: dopo poco ci aprì una donna paffuta, che, affacciandosi sulla soglia, si incupì. Si era illusa che fosse suo marito, che sarebbe tornato a casa da un giorno all’altro. Io e Stefano ci guardammo l’un l’altro, gli occhi si posarono a terra, mentre ci preparammo a dare la funesta notizia. Piansi per tutto, per l’amico perso, per i figli rimasti orfani di padre, per Paola. Davanti a noi lo sguardo di una donna che iniziò a comprendere che era rimasta vedova, sul finire della guerra, il 25 marzo 1945”.
Cimitero Militare di Amburgo: “Vista dall’alto dei cieli sembro soltanto una vasta distesa, coperta di neve bianca, un foglio vuoto pronto per essere riempito di nomi sconosciuti. Io sono ricoperto di anime ignote. Le mie anime sono straniere, non vengono dalla mia terra, ma da una terra lontana in cui vivevano in pace con i propri familiari, ricordo lontano, prima di diventare internati militari italiani. I tedeschi avevano dato loro la possibilità di rendere meno penosa la loro condizione: aderire alla Repubblica Sociale Italiana, rientrare in Italia e di riabbracciare i loro cari. Ma la coscienza di molti non ha potuto sopportare tanto. Meglio lo squallore di una prigionia crudele che perdere la dignità. Ho visto una ragazzina posare dei fiori bianchi sulla tomba di suo padre morto in guerra: aveva sofferto molto prima di arrivare, il viaggio straziante, la fame e il lavoro faticoso che portava alla morte, ma soprattutto la nostalgia di casa. Sulle tombe l’unica cosa che si posa sono le foglie degli alberi, spogliati dalla fredda stagione”.
Francesco Pratini
Caddi per un colpo alla nuca, l’ultima cosa che vidi fu la canna di un fucile puntata verso di me. Mi risvegliai su un carro chiuso e maleodorante. All’interno era molto buio, ma, per fortuna, uno spiraglio di sole, ci illuminò il viso. Le nostre facce si riflettevano sulle lastre di ferro del vagone: occhi celesti, naso piccolo e il colorito roseo di un uomo pieno di vita. In fondo ero sempre lo stesso Francesco Pratini, contadino di Ghedi, nato il 17 agosto 1907. Guardando gli occhi riflessi sulle lastre di metallo ripensai a mio figlio e a quanto era dolce e amabile. L’avrei visto crescere? Ma soprattutto, l’avrei rivisto? Mi addormentai e sognai casa: quando iniziai a coltivare le mie terre, secondo la tradizione di famiglia. Sono un contadino, non un soldato. Ma nel 1942, una sera d’inverno, tornato da una giornata pesante di lavoro nei campi, trovai sulla porta di casa mia moglie che mi aspettava con la cartolina in mano e le lacrime agli occhi. La presi dalle sue mani, restai di ghiaccio nel vedere il contenuto: era la cartolina verde e grigia dell’Esercito Italiano su cui compariva in bella vista il nome del mittente. Questa mi ordinava di presentarmi per essere assegnato al 66° reggimento di fanteria. La frenata del carro mi svegliò insieme alle urla. Mi ritrovai a Mosbach. La maggior parte dei miei compagni erano contadini, come me, ed erano molto giovani. Ci schedarono, poi le docce e la rasatura. L’acqua era gelata, i rasoi arrugginiti: uscimmo più provati di prima. I miei caldi e pesanti vestiti non li vidi più: al loro posto una camicia e pantaloni logori e umidi, zoccoli di legno, troppo grandi per me. La baracca in cui alloggio è lurida e umida, è molto cupa e triste perché dalle finestre non entra un raggio di sole. Ratti, pulci, zecche sono i nostri coinquilini. Qui la vita non è facile, si ha poco cibo e bisogna lavorare nelle cave di gesso, in quegli stretti e tenebrosi cunicoli in cui si soffoca. Una fabbrica d’armi di Berlino si è trasferita qui a causa dei bombardamenti. L’aria polverosa che respiro si deposita nei miei polmoni, provocandomi una tosse secca e convulsa. Per lavorare abbiamo solamente dei picconi arrugginiti, nessuna protezione. Quando salgo in superficie sono molto debole e stanco, sento il mio corpo indebolirsi, ho una tosse terribile, peggioro di giorno in giorno, faccio sempre più fatica e la galleria non ha fine. Rispetto a quando sono partito sono diventato molto più magro, la mia pelle ha perso quel il colorito roseo di prima, sto perdendo le forze. Sto sempre peggio, ma qualcosa mi dà speranza. Aerei militari sorvolano i cieli, i tedeschi sono in delirio... Sono arrivati gli Alleati. La maggior parte dei tedeschi è stata fucilata, altri sono stati arrestati. Vicino al campo di concentramento, hanno messo dei grossi tendoni bianchi, dove ci cureranno e ci rimetteranno in sesto. Passano i giorni, vedo i miei compagni andarsene, io rimango nel mio letto, sempre più debole. Sento i medici parlare di me, e discutere del fatto che i miei polmoni stanno per cedere. Un amico è venuto a salutarmi, prima di partire: “Sorridi, tornerai a casa sano e salvo, riabbraccerai presto la tua famiglia”. Dentro questo maleodorante letto, chiudo gli occhi e ricordo la mia cara e vecchia Ghedi. Come potrei dimenticare il canto del gallo che mi svegliava all’alba per cominciare la giornata nelle campagne? Come tutte le mattine, avrei mangiato la mia solita polenta intinta nel latte. Quanto sarebbe bello ripercorrere quelle strade di campagna insieme agli amici e vedere i bambini giocare nei fossi. Ripenso ancora alle gelide mattine d’inverno, alla fitta nebbia che ricopriva le campagne. Le donne, che lavavano i panni, e si intrattenevano intonando vecchi canti popolari.
Sorrido e chiudo gli occhi per sempre. Sono morto senza rivedere la mia famiglia. Con una firma disonorevole avrei potuto salvarmi, ma c’è qualcosa in me che supera ogni tentazione, ogni lusinga, qualcosa che permette di vincere anche un egoismo tanto prepotente. Hanno trasportato il mio corpo in Germania, a Francoforte sul Meno, e lì mi hanno sepolto. Mi ritrovo circondato da lapidi, tutte uguali, bianche, croci. Condivido le storie dei miei vicini e ho scoperto che non sono poi così tanto diverse dalla mia: arruolato nell’esercito, catturato dai nazisti, internato, assassinato. La speranza di tornare a casa, per anni, mi diede la forza di sopportare la prigionia, ma non bastò a farmi tornare.
Santo Borghetti
Sono Santo Borghetti e sono nato il 24 gennaio 1917. Come ogni bambino della mia età andavo a scuola, aiutavo il babbo nei campi e giocavo con le mie sorelle Lucia ed Erminia: avevo anche un fratello maggiore di nome Secondo. Giocavamo sempre insieme, finché un giorno non arrivò anche per lui l’età della chiamata alle armi. Combatté a Gela contro gli Americani, durante lo sbarco in Sicilia. Io, arruolato presso la guardia alla frontiera, seguivo il notiziario alla radio. A un certo punto sentii questa notizia: “A Gela i servitori della patria si sono battuti senza risparmio d’energia, contro forze più modernamente equipaggiate e appoggiate da una forza aerea e da una flotta così potente e numerosa che toglie il respiro solo a guardarla”. Pochi giorni dopo appresi che mio fratello Secondo era morto l’11 luglio 1943. Poi arrivò anche per me l’ora della cattura: fui internato in Germania. Ovunque urla, spari e trambusto. È tutto così strano, confuso, ovunque riecheggiano le grida, gli insulti, le bestemmie e le minacce. Il sangue scorre velocemente nelle vene, il cuore batte a mille, cosa mi succederà? Tutta la vita mi passa davanti: l’infanzia, la giovinezza, i primi amori e la chiamata alle armi. Mi imposero una scelta: giurare fedeltà al regime e tornare a casa o rimanere nel lager. A quel tempo, le pressioni per entrare nella Repubblica erano continue, io avevo un’idea ben precisa e davanti a tutti dichiarai: “Non aderisco all’idea dell’Italia repubblicana fascista e non mi dichiaro pronto a combattere nel nuovo esercito italiano del Duce. La guerra è inutile, uno spreco di vite umane.” Il gelido vento orientale ghiacciava sulla pelle quelle squallide divise e le scarpe ormai sfondate. Quella moltitudine di uomini, ormai simili a spettri, attendevano il Natale tra le miserie, il fango e la morsa della fame. Ma con una speranza nuova e diversa... Preparammo un albero di Natale: cartone, stracci, bastoni, lamiere, ogni cosa era utile. Ognuno di noi ricevette poi dei regali scritti su cartellini. A me ne toccò una tazza di latte e miele. Arrivò la sera della Vigilia e immaginavo la mia famiglia radunata attorno al tavolo, ma una sedia, la mia, era rimasta vuota. Caterina e Gaetano, i miei genitori, guardavano pensierosi quel posto vuoto, tutto era immobile nella stanza, anche l’orologio aveva interrotto il suo ticchettio e la fiamma del camino era congelata. Improvvisamente ritornai alla realtà del lager. Ero a pochi metri dai miei compagni, mi stavo riparando ai piedi di un albero. Non sentivo più spari, si erano interrotti: uscii dal mio riparo e cercai di raggiungere i miei compagni. Gli scoppi delle granate ricominciarono e si avvicinavano velocemente fino a che... Un fischio lancinante mi risuonò nella testa e un dolore atroce mi trapassò il petto: fui colpito da una scheggia di granata. Vidi tutto nero, caddi a terra. Era il 23 aprile 1945. Il mio corpo fu portato nel cimitero militare d’onore di Berlino, per poi essere ricondotto in Italia, nel camposanto di Leno. La pace è un bellissimo sogno, ma non esiste il bene senza il male, la luce senza l’oscurità e di conseguenza la pace senza la guerra.
Angelo Dander
Mi guardai un’ ultima volta allo specchio, l’unico specchio di casa. Non mi ero neanche aggiustato i capelli. I capelli neri, i miei occhi marroni, la mia pelle scura. Potrebbero non esistere più. Nacqui il 17 luglio del 1908, sarei morto giovane. Mi viene in mente quando da bambino salivo sugli alberi e guardavo le montagne che si intravedevano in lontananza, e, ingenuo, sognavo di andare a esplorare quei luoghi ignoti. Ora ci andrò, ma non come pensavo io. Era l’aprile del 1940. Aveva appena piovuto ed io stavo controllando che la pioggia non avesse rovinato le piante più piccole. Ad un certo punto sentii mia madre che urlava il mio nome singhiozzando, mia madre si chiamava Maddalena, Maddalena Corbellini. Questo prima di sposare mio padre, Giuseppe, e prendere il suo cognome. Appena sentii mia madre corsi subito da lei, appena mi vide mi abbracciò e mi disse: “È arrivata!”. Capii subito, quella piccola cartolina era quasi magica, riusciva a distruggere una vita senza fare niente: era la seconda chiamata alle armi, ma ora tirava vento di guerra. Venni assegnato agli Alpini, sapevo che sarebbe stata dura e sinceramente avevo paura di dover trasportare cannoni pesanti tonnellate in mezzo a metri di neve, ma ricordavo, in seguito alla mia prima esperienza militare, che ci si faceva forza a vicenda e che, mentre si camminava si cantava e si pregava il buon Dio di salvarci tutti. Pensavo sempre a queste cose perché ero consapevole che, se avessi guardato in faccia la realtà, non avrei esitato a scappare e diventare un disertore, anche a costo di farmi fucilare. Poco tempo dopo mi ritrovai in mezzo alle montagne faticando e sudando per cercare di compiacere alcune persone che mi vedevano solo come una pedina sacrificabile, niente di più. Mi ricordo le lunghe scalate in cui cantavamo:
“Oh valore Alpin...
difendi sempre la frontiera!
E là sul confin
tien sempre alta la bandiera
Sentinella all’erta
per il suol nostro italiano
dove amor sorride
e più benigno irradia il sol”.
Nell’ottobre del ‘40 fui congedato e ritornai a Ghedi, faceva ancora caldo, riabbracciai la mia famiglia, pensando di essere scampato alla guerra, ma poco dopo giunsi in Germania come lavoratore civile, a dispetto della mia volontà. Dopo l’otto settembre del ‘43 le condizioni generali dei lavoratori italiani nel Reich peggiorarono bruscamente: il trattamento nei nostri confronti da parte dei tedeschi era intriso di violenza e pregiudizio. Da lavoratori diventammo presto schiavi. Eravamo alloggiati in una baracca piena di topi, dove l’acqua entrava dal tetto e il vento non esitava a insinuarsi dentro le camere. Resistevo in silenzio; la fame, le vessazioni, il freddo e la malattia avevano già piegato alcuni di noi. Ma non cedevo. Se avessi ceduto ai ricatti tedeschi non avrei più potuto credere alla libertà umana, i miei ideali sarebbero diventati una pallida ombra. Ad un certo punto i morti non ci facevano più impressione. Vedete il carretto dei morti? È lo stesso con cui ci portano il cibo: il carro che porta i morti è lo stesso che porta il pane, ovvero la speranza di sopravvivere ancora un altro giorno. A vederlo, penso a quel carro, a quello stesso carro che torna col nostro pane. È più forte di me, perdonatemi. Io volevo vivere, ma per alcuni le mie ambizioni, i miei desideri, i miei sogni erano solo stupide e egoiste richieste. Morii il 21 febbraio 1945 a Bernhausen, in Germania, colpito da una granata. Ora riposo in pace al Cimitero Militare Italiano d’Onore di Amburgo.
Angelo Mor
Mi chiamo Angelo Mor, vengo dalla campagna bresciana, da Ghedi, il mio paese natale. Sono nato il 20 Maggio 1911. Amo la campagna e la natura, sono un semplice giardiniere, con la licenza elementare, il mio sudato titolo di studio. Ho iniziato a lavorare per aiutare i miei genitori, Francesco e Teresa. Molti dicevano che ero il ritratto di mio padre: capelli castani e lisci, occhi celesti, non molto alto. Anche lui medesimo lavoro, divenuto passione con il passare del tempo. Tutto ciò interrotto dalla chiamata alle armi, il 12 Dicembre 1940. Partii per l’Albania il 14 Aprile del 1941, salutando il mio paese: addio Ghedi, con la tua estesa campagna, addio al vento fresco, che scompiglia le fronde di quei grandi pioppi e platani elevati verso il cielo. Addio campi di grano sparsi e dorati, come coperte che avvolgono e scaldano. Addio cascina, con le grandi distese che ti circondano, addio stalla, che accogli il nostro bestiame, addio aia che mi hai spesso rasserenato, con i balli e i canti. Addio Ghedi, mai più rivedrò i miei genitori, mai più sentirò il profumo della cucina di mia madre e la voce imperativa di mio padre, che mi insegnava e educava. Com’è triste questo viaggio verso l’Albania, che dai più cari affetti mi allontana. Addio da chi non se ne voleva andare e non desiderava sapere com’era il mondo esterno, da chi aveva basato tutti i suoi sogni su questo paesino, e n’è stato trascinato lontano da una maledetta guerra. Che distrugge e rode fin dentro l’anima, che sradica gli alberi come la nostra speranza, ed estirpa gli uomini come boccioli di fiori. Che tristezza questa nave che parte da Bari, con tutti questi uomini che non vogliono altro che le proprie famiglie e il tepore della casa. Ho combattuto per due interminabili anni, arruolato in fanteria come soldato, in Albania e in Jugoslavia. Poi... 8 settembre 1943: vengo catturato nel Montenegro, mi trasportano a Willerytingn… Wellarting… Non so come si pronunci, forse Willhering. Leggo il nome Linz su alcune insegne. “Wir sind in Linz angekommen”. Ma che cosa significa? Nessuno di noi conosce il tedesco. Sappiamo però che, per guadagnarci la zuppa, dobbiamo lavorare duramente. Sento uomini parlare del cibo a qualsiasi ora del giorno; alcuni pure di notte, mentre dormono a fatica; altri scrivono ricette di dolci, primi, secondi e antipasti, immaginando e ricordando pasti gloriosi con la famiglia. Io stesso sento la fame, sogno pane, pane fragrante mentre dormo; digrigno i denti, serro le mascelle. Mangiare così poco aumenta inesorabilmente la fame, conducendo alla pazzia. La fame consuma non solo lo stomaco, ma pure il cervello. Mancano pochi giorni a Natale e tutti speriamo in una razione speciale, pieni di emozione sogniamo finalmente un vero pasto. Ma al suo posto: rape stagionate, come se di rape non ne mangiassimo abbastanza... E poi una sbobba acquosa con patate congelate, pane impastato con segatura ed erba di prato, come insalata. Il dolce? Una torta di patate e melassa ed un intruglio di foglie per caffè. Il lagerfürher grida dall’alto della sua posizione: “Arruolatevi nelle SS, se non volete morire. Chi si arruola andrà a combattere in Italia, sotto il comando tedesco e riceverà doppia razione”. Sopporto la fame, il duro lavoro e la malattia, ma non posso cedere a questo ricatto. La sera i tedeschi fanno sfilare davanti alle baracche di noi che abbiamo resistito, coloro che si sono arruolati. Vediamo gamelle ricolme di zuppa nelle loro mani, patate e sigarette. Ma neppure questo ricatto, ci fa tornare sui nostri passi. Dormire diventa sempre più difficile, oltre alla fame, paura e timore mi fanno sudare freddo e un brivido mi oltrepassa la spina dorsale. Bombardano, sempre più spesso veniamo svegliati dal rumore dei bombardamenti. Ormai sono settimane che i bombardamenti si susseguono, diventando via via sempre più violenti. Una mattina, 4 maggio 1945, neanche il tempo di unirmi agli altri prigionieri, sento un grande trambusto. Vedo alcuni dei miei compagni già svegli che sembrano festeggiare... Nella confusione generale riesco a capire “I tedeschi fuggono!” Mi dirigo al grande cancello d’uscita il più velocemente possibile, voglio abbandonare questo dannatissimo posto! Sgomitando tra gli altri riesco ad avvicinarmi sempre di più e... Boom. Sento un dolore lacerante allo stomaco, la mia vista si offusca sempre più, riesco a malapena a scorgere i miei compagni allontanarsi... Un varco di luce si apre davanti a me. Mentre gli altri sono riusciti a tornare in Italia io sono rimasto qui... In terra straniera.